
C’è lo zampino della famiglia Medici nel ripristino (oggi diremmo riqualificazione) di un’ampia zona che nel Quattrocento delimitava il passaggio fra Firenze e la prima, immediata campagna. Sì, perché fino a quel prestigioso matrimonio, che congiunse i cuori e le tante sostanze del quarantenne Granduca Ferdinando I de’ Medici, che per assumere quell’importante ruolo aveva abbandonato la porpora cardinalizia, indossata a soli 13 anni, e la giovanissima Cristina di Lorena, quell’area, denominata Il Prato, appunto per il clima campestre che vi si respirava, era piuttosto malsana e settimanalmente destinata al mercato del bestiame. Un cambiamento di atmosfera, dall’urbanizzato centro storico ai primi segni di una periferia campestre.
Il matrimonio fu l’occasione per bonificare la zona e di lì a poco per lanciarla come ambìta terra per nuovi investimenti in architettura. E infatti solo un anno dopo il matrimonio granducale fu posta la prima pietra di un bel palazzo che sarà del nobile Alessandro Acciaiuoli, ricco per sostanze di famiglia, botanico per passione. E il palazzo venne su in forme spiccatamente fiorentine, con tanto di ‘finestre inginocchiate’ al piano terreno, secondo gli stilemi dattati diversi decenni prima da Michelozzo col suo palazzo Medici Riccardi. Palazzo, certo ma non vera residenza di città, piuttosto un esempio paradigmatico di “casino di città”, dimensione architettonica molto gettonata in quegli anni, che, pur conservando la sobria eleganza dei palazzi fiorentini del centro storico, si proponeva in veste più dimessa e in dimensioni più contenute, sempre con ampio parco-giardino ad allietare una sorta di villeggiatura quasi cittadina.
Ma le fortune dell’Acciaiuoli improvvisamente franarono e nel 1620 la proprietà passò a Filippo Corsini, rampollo di una fra le famiglie fiorentine più antiche e illustri. I Corsini già possedevano uno splendido palazzo sul Lungarno omonimo, concepito con gli stilemi di una piccola reggia e che, in linea d’area non distava soltanto qualche centinaio di metri da questa loro nuova proprietà. Filippo, si ritrovò un “casamento non finito, il giardino di un semplicista, corredato da una ragnaia”. Insomma c’era necessità di portare a termine il fabbricato e di dare una maggiore dignità all’area verde. Per farlo si rivolse a Gherardo Silvani, prima lama dell’architettura del tempo ed epigono di una Maniera che ormai stava per chiudere la sua parabola e per lasciare posto all’Età Barocca.

Il Silvani si limitò a completare l’edificio, ritoccandolo con piccoli ma eleganti interventi, ma soprattutto ridisegnò l’area verde con elementi di grande effetto scenico e altrettanto equilibrio formale. Dalla facciata interna, infatti, fece partire un vialetto prospettico scandito da belle statue decorative. Un fulcro visivo di impronta regale, da cui, ai rispettivi lati, prendevano origine due porzioni simmetriche di giardino all’italiana, con siepi di bosso dal bel disegno geometrico e tre limonaie a ribadire un’identità coltiva molto presente nei giardini fiorentini, come nelle Nature Morte dei dipinti fiorentini coevi. Simbolo di salvezza e di fedeltà amorosa. Infine, ai lati estremi dell’area verde due selvatici, a dire piccole zone boschive che richiamavano, in scala, il fascino ancestrale e quasi misterioso della natura spontanea.
Soprattutto nell’Ottocento il giardino andrà incontro a qualche variazione, soprattutto con interventi nella parte boschiva eseguiti secondo il gusto del giardino romantico all’inglese, ma la sua struttura portante non avrà sostanziali mutamenti. E dunque ancora oggi, ‘coltivato’ dalla famiglia Corsini, con lo stessa dedizione che si riserva a un capolavoro d’arte, il giardino scandisce il passaggio del tempo rinnovandosi nelle stagioni, con le sue statue che lo ‘vegliano’ e la sua importante storia che lo sostanzia.
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