
Doveva essere un uomo colto, forse un accademico, quasi certamente di nascita inglese, ma in prima battuta stabilitosi a Brescia prima di prendere la via della Toscana, quel Mastro Adamo, giunto nella città lombarda con fini ben più alti (sembra accademici) e poi ‘corrotto’ dalla famiglia dei Conti Guidi di Romena a battere per loro falsi fiorini fiorentini, nascosto negli ambienti più segreti di questo antichissimo castello casentinese. Abilissimo in quest’attività gravemente illecita che al tempo, siamo nella seconda metà del XII secolo, costava la vita a chi la praticava, oltre a una sorta di damnatio memoriae, Mastro Adamo fu scoperto e, in un infausto giorno del 1281, gli fu mozzata la testa senza tanti complimenti.
Ma a consegnare all’eternità la vicenda umana e l’orribile fine di quest’uomo, certo di qualificato cervello, anche se di dubbia moralità, ci pensò il Sommo Poeta, visto che incontrerà la sua anima dannata nel XXX canto dell’Inferno, quello, appunto, in cui si racconta del girone dei falsari. Un incontro mesto e accorato, dove Mastro Adamo esprime al poeta il suo dolore, cercando di passare, diremmo comprensibilmente, gran parte della responsabilità delle sue efferate azioni, ai suoi committenti e signori che lo avevano corrotto e quasi obbligato ad imboccare quella strada sbagliata.
I Conti Guidi di Romena, ramo secondario di quello principale di Poppi, avevano acquistato il castello, al tempo assai diverso da quello che visitiamo oggi, agli inizi del XIII secolo, dalla famiglia feudale che lo aveva eretto sul finire del primo Millennio, quella dei Marchesi di Spoleto, che estenderanno i loro possedimenti in tutto quel remoto Casentino.
Agli inizi del Trecento, circa un ventennio dopo l’esecuzione di Mastro Adamo, lo stesso Dante, fuggito da Firenze in un peregrinare che durerà circa un ventennio, sarà ospite dei conti Guidi, sia al castello di Romena che a quello di Porciano, l’altra importante fortificazione che controllava il territorio. E dunque la storia del falsario e del suo triste destino il Ghibellin fuggiasco l’avrà ascoltata in viva voce proprio da coloro che lo ospitarono.

Pare certo che il castello avesse dimensioni considerevoli, una villa riservata ai proprietari, un grande cassero centro del comando della guarnigione e un’ampia teoria di tre cerchie murarie, su cui campeggiavano ben quattordici torri. Nel 1440, poi, nel periodo delle complicate guerre territoriali fra vari stati e staterelli di quell’Italia ancora molto frammentata, Romena fu messo a ferro e fuoco dalle truppe dei Visconti, condotte dal celebre e spietato capitano di ventura Niccolò Piccinino.
In parte ricostruito, in forme sempre importanti ma certo più ridotte, il castello sarà poi acquistato dai fiorentini e da quel momento entrerà a far parte delle proprietà del Granduca di Toscana. Alla fine dell’Ottocento, ormai ridotto ad un affascinante rudere, sarà ricostituito per volontà dell’allora proprietario, il conte Ottavio Goretti de’ Flamini.

Il castello oggi, pur presentando brani diroccati, oltre a qualche totale assenza strutturale, conserva una sua più che dignitosa compattezza, ma soprattutto quel fascino non spiegabile di certi castelli delle antiche favole medievali.
Oltrepassato il ponte levatoio, attraversata la bella piazza d’armi, raggiunto il superstite cassero e le mura di cinta, pare di percepire l’eco di quel tempo remoto, ma non scomparso. Tempo di donne, di cavalieri, d’armi e d’amori…
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