
Architettonicamente concepito come uno spazio semplice e rigoroso, in cui privilegiare l’aspetto funzionale, senza concessione alcuna a sovrabbondanti compiacimenti decorativi e richiami allegorici e simbolici, il Palazzo dei Pittori per i Fiorentini è un grande edificio familiare, profondamente legato al vincolo profondo che la città ha, da sempre, con una fra le Arti maggiori: la pittura.
Lo progettò Tito Bellini, architetto di ottima fama durante gli ultimi decenni dell’Ottocento, nonché Accademico onorario delle Arti del Disegno, su commissione del pittore inglese, di stanza a Firenze, Arthur Lemon, passato alla storia più per la sua capacità di grande promotore culturale che per i suoi risultati sulla tela.
Il vasto edificio, sorge, nell’attuale viale Milton, in un’area ai limiti del centro storico, dove furono progettati i nuovi viali di circonvallazione, come segno di un rilancio della città verso il futuro, dopo che Firenze era stata, seppur per brevissimo tempo, capitale dell’appena nato Stato italiano.
Il Bellini, esponente dello stile umbertino, che anticiperà di qualche anno il Liberty, si attenne fedelmente agli stilemi di questa corrente eclettica e un po’ conservatrice, che si proponeva di recuperare riferimenti architettonici del Gotico e del Rinascimento, attraverso una rilettura contemporanea. Per questo il nostro palazzo ci appare come una grande e severa struttura a pianta rettangolare, con un enorme portale decorato a marmi antichi e sovrastato da un timpano e una grande scalinata in cui si sono scelti colori dell’antica tradizione: il rosso pompeiano e il blu notte.
Gli interni furono razionalmente concepiti come studi per pittori italiani ma soprattutto stranieri che frequentavano o vivevano a Firenze, in quel momento città prediletta da molti giovani artisti di belle speranze.
Fu così che nel breve scorrere di qualche decennio il palazzo divenne un riferimento importante per i pittori, un luogo simbolo dove andare a lavorare e ritrovarsi per confrontarsi sulle nuove istanze artistiche dell’ormai avviato Novecento.
Una fra le molte cronache che arricchiscono di fascino il nostro palazzo ci racconta di una lunga permanenza fra le sue mura di Arnold Böcklin, in visita all’amico e pittore russo Wladimir Swertschkoff, che aveva studio e viveva proprio lì. Ebbene, il celeberrimo e visionario artista svizzero, proprio nello studio dell’amico, dipinse una fra le sue opere più famose, l’Isola dei morti, forse ispirandosi al non lontano cimitero degli inglesi, ancora oggi al centro dei viali di circonvallazione.
Ben presto l’edificio divenne un luogo d’incontro e di relazioni artistiche e letterarie per molti giovani tanto da consolidare sempre più il ruolo per cui era nato. E dunque, per tutto il Novecento ed ancora oggi, grazie anche a un vincolo voluto dal Ministro Spadolini, che riconosce soltanto agli artisti il diritto di occupare quegli studi, il singolare edificio ha riconfermato la sua identità profonda, quella di essere un ambito riservato solo a coloro che hanno scelto l’arte come lavoro e ragione di vita.
Rispondi