
Firenze. Piazza Santa Croce. L’omonima, grandiosa basilica sulle cui strutture poggia una storia millenaria di eventi anche funesti e di momenti di altissimo contenuto architettonico, scultoreo, pittorico. Chi cerca il grande Michelangelo pittore dovrà, infatti, recarsi a Roma, in San Pietro, alla Sistina, chi invece vorrà ammirare le origini di una pittura che rinasce e si rinnova dopo i secoli bui seguiti alla definitiva caduta dell’Impero romano, dovrà entrare in Santa Croce, dove un doppio ciclo di pitture a secco lo attende; ciclo che rappresenterà una sorta di modello di riferimento per tutti gli artisti coevi e che contribuirà in maniera sostanziale al rifiorire dell’ars pingendi.
Nelle cappelle Peruzzi (con le Storie dei Santi Giovanni Evangelista e Giovanni Battista) e Bardi (con le Storie di San Francesco d’Assisi), infatti, Giotto ha lasciato il segno tangibile e bellissimo di un’arte nuova che cerca un dialogo con la realtà, che si sforza di uscire dagli statici canoni della piatta e devozionale pittura bizantina, attraverso un’ancora inesatta ma già individuabile prospettiva e che, infine, si impegnava, seppur con strumenti tecnici ancora rudimentali, a dare alle figure espressione e sentimento. E di questa basilica, sacra ai fiorentini quasi e più del Duomo di San Giovanni, la piazza omonima è la naturale filiazione, quasi un prolungamento laico della sua grande navata centrale.
Nella piazza, situato sul lato sud, ai numeri 20-21-22 sorge un singolare palazzo, con affreschi in facciata, ch’è il risultato di un accorpamento, avvenuto in diversi momenti del passato, Palazzo dell’Antella, o degli Antellesi o degli Sporti, in origine proprietà della famiglia Ricoveri, poi dei Del Barbigia. Palazzo che nella seconda metà del Cinquecento fu sopraelevato di un piano. Il risultato fu quello di un edificio, che per il periodo si presentava con un aspetto eclettico, un palazzo nobiliare che, tuttavia, per certi inequivocabili stilemi, richiamava la semplicità costruttiva delle case ‘popolari’ del Medioevo.
Nel Seicento un intervento pittorico, vistoso ed eccentrico, contribuì a dare al palazzo una singolarità non riscontrabile in altri antichi edifici fiorentini. La facciata del palazzo, infatti, fu interamente affrescata da un gruppo di giovani allievi di Giovanni da San Giovanni, fra i più brillanti maestri del primo barocco fiorentino. Giovani pittori, alcuni dei quali in seguito si faranno onore, fino a rappresentare il meglio della pittura del Seicento locale. Fra questi Domenico Passignano, Matteo Rosselli, Ottavio Vannini e Fabrizio Boschi.
Per l’esecuzione del grande affresco Giovanni da San Giovanni ebbe l’incarico dall’architetto Giulio Parigi, che nel frattempo era intervenuto per dare maggiore unità e coesione all’intero complesso architettonico.
Il risultato fu gradevole, a tratti di felice immaginazione: una bella allegoria tesa a esaltare la famiglia proprietaria e i buoni rapporti della stessa con la famiglia medicea, in una sorta di simbolica rappresentazione di amicizia e devozione al potere imperante. E infatti, all’ingresso del palazzo, campeggia un bel busto coevo che ritrae il granduca Cosimo II de’ Medici.
Prezioso esempio di giardino in forma di hortus conclusus, il piccolo ma significativo spazio verde, contenuto e segreto in una piccola area dell’edificio, oggi si presenta con decorazioni settecentesche di piacevole ed elegante fattura: un ninfeo, conchiglie incastonate nella muratura, pietre che aggettano qua e là, il tutto per dare la sensazione di uno scorcio naturalistico, visionariamente reinventato, secondo il gusto del periodo.
Un tempo nel prezioso spazio verde campeggiava una fontana con una vasca marmorea e una statua di un giovane, disegnata dal Giambologna e realizzata dal suo allievo Pietro Tacca. Purtroppo, in un periodo non precisato, del complesso marmoreo si perse traccia e solo dopo lungo tempo lo si ritrovò, smontato e disgregato, in parte al Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo, in parte al Victoria and Albert Museum di Londra. Uno fra i tanti capolavori del nostro passato che non abbiamo più.
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